Figli della Divina Provvidenza (FDP) A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W Z ordine alfabetico per Cognome
Necrologio Figli della Divina Provvidenza (ricordati nel giorno anniversario) |
D (62) 14. Damele Michele 15. Danna Giuseppe 16. Dapra Cesare 22. De Cortes Frugoni Miguel A. 27. De Paoli Angelo 28. De Rosa Benito 31. Degaudenz Mario 35. Del Rosso Luigi 37. Del Fabbro Giovanni Battista 38. Delfino Filippo 40. Demarco Roberto 41. Demontis Cesare Fra Pacomio 43. Di Giusto Giosuè 45. Di Iorio Luis 50. Dobosz Francesco 51. D'Odorico Renato 52. Dominguez Ramon 53. Dondero Carlo 54. Dondero Giuseppe 55. D'Onofrio Cesare 57. Doria Luigi 59. Draghi Domenico 61. Durante Gerardo 62. Dutto Giuseppe |
da Cerchio (L'Aquila), morto a Roma l' 11 dicembre 1968, a 66 anni di età, 50 di Professione e 42 di Sacerdozio. Riposa a Roma Verano.
Don Di Pietro, candida gioia nella Piccola Opera della Divina Provvidenza, periodico "La Piccola Opera della Divina Provvidenza", febbraio 1969: Erano di materiale poverissimo le case di «Cerchio dei Marsi», come tutte quelle degli altri paesi attorno alla ampia « cerchia » dell'ex lago di Fucino. Agli scossoni ondulatori e sussultori crollarono tutte miseramente in quella gelida alba di gennaio 1915; persino la chiesa turrita, ove i missionari alfonsini - vera grazia di Dio in quelle due prime settimane dell'anno - erano già in confessionale. Un dodicenne - Fracì, ossia Francesco - sgusciò, di tra rottami travi e calcinacci, invocando : «Mamma, mamma!». Ma la pia mamma aveva iniziato l'eterno colloquio con Dio. Non così il padre che - rotto in più parti del corpo - aveva ancora aneliti di vita. Di quanti anni maturò il fanciullo, allo schianto della mamma muta e nel tentare un soccorso al padre, cruciato nell'anima oltreché nelle membra? Poi un altro « padre », sovvenne anche a lui, guidandolo in un'amena casa di campagna: la «Colonia Santa Maria» di Vicolo Massimi in Monte Mario di Roma. Se lo osservate nella fila seconda nella foto ove c'è il Vescovo dei Marsi Mons. Bagnoli con Don Orione al suo fianco e gli orfanelli, è lui, Francesco di Pietro a 12 anni. Il volto rotondo più che pieno; giocondo l'aspetto, ma l'occhio ancor riflette non poco di quel tremendo mattino. E si susseguirono giornate, lentamente, ma via via rasserenanti colla ripresa della scuola: e la scuola elementare era a circa tre chilometri: la «Nazario Sauro», al di là del culmine di Monte Mario. Vi si sgambettava di buon mattino, qualunque tempo facesse; era indurimento per le membra, ma più il carattere si andava temprando. Settimanalmente poi, un maglio affettuoso calava, calava sulla duttile forma a plasmare: era il fortunato contatto con Colui che - nella foto - è al centro, presso il Vescovo dei Marsi Bagnoli: DON ORIONE. Quando non a piedi (i tramvai arrivavano allora solo alle falde di Monte Mario), Don Orione giungeva lassù con un calessino nelle sue soste fra Avezzano e Tortona. Soleva partire da Avezzano - epicentro del sisma e subito divenuto centro dei soccorsi - il sabato verso le 12, lasciando al suo posto Don Enrico Contardi. Fatta breve sosta a S. Anna, presso il Vaticano, correva dai suoi orfani che l'aspettavano contando i minuti; poi, ripartendo a tarda notte, raggiungeva Tortona per darsi dall'alba al tramonto della domenica ai suoi ragazzi dell'Oratorio festivo e rientrava, durante la mattinata del lunedì, ad Avezzano. Era fuoco e gladio di Dio, quella parola, nella breve sosta alla Colonia; ma lo spettacolo del suo consumarsi per i poveri pìccoli, per noi piccoli, oh di quanto - incisivamente - oltrepassava la efficacia stessa della parola, di... quelle parole! Era quella di Don Orione una alta paternità, ma pacata e semplice che arrivava ad ognuno, noto a lui per nome, cognome, paese di origine e inflessioni dialettali. Essa andava poco per volta sciogliendo in un mistero di amore, le inacerbite animucce, le punture acute degli interrogativi, i persistenti ed inquietanti perché. Ma come mai? Perché il paese, le povere case disfatte, la mamma orridamente sepolta, il padre macerato nel corpo e nello spirito; tanto e tanto nello spirito; ed attorno, nelle cittadine e nei paesi dell'ampio giro del Fucino, tutte quelle ruine, tutti quei morti? C'era un bel « Cristo in croce» in quella cappella un po' discosta dall'Istituto... La campagna attorno era vasta, se pur gerbida; ma un eremita, rosariando tutto solo, la stimolava ad ogni ora del giorno a dar frutto. Si chiamava Frate Igino, quella perla degli Eremiti di Don Orione. - E' terra benedetta dal Papa - diceva a Francesco e agli altri ragazzi quando negli intervalli di studio gli si facevano attorno - è Pio X che l'ha fatta dare a D.Orione, perché subito corse a Reggio e Messina nell'altro terremoto: Vedrete, vedrete. E per farla fruttare e farne orto, scassò due volte - a doppia misura di vanga - il tratto più pianeggiante. E così la verdura venne ed altre cose, belle e buone. Oh, quelle carote sarebbero piaciute pure a... sofisticati stomaci ! Ma pure i fiori vennero, e poi i frutti: ma si aggiungeranno le more: lì e altrove. Compiacente «Stanislao», un assistente polacco-tedesco, si abbandonava talvolta il rettilineo di via Trionfale, tornando da scuola, per deviare verso via Camilluceia ove, tra le fratte, era più frequente e più turgido quel nero frutto. Era una strada campagnola polverosa e deserta quel tratto di via della Camilluccia che, dopo un trecento metri, rientrava in via Trionfale: una sola costruzione c'era, una villetta rossigna. - Lì ce stanno li protestanti - ci dicevano. Ma D. Brizio che ogni tanto veniva a parlarci di zolle e di tante altre cose precisava: - Sì, ma non i migliori, non sono tutti come questi qui, che sono di una setta la quale viene in Italia perché ai paesi loro perdon terreno. Caro Don Brizio, che precorrendo di 50 anni il Vaticano secondo, - sotto l'egida di Don Orione - aveva avviato un colloquio con i migliori fra loro! Maggio e poi giugno, mesi determinanti. Dopo un ritiro di tre giorni predicato da D. Cesare Pedrini, che voluminoso saliva in calesse dalla Chiesa di San Giuseppe al Trionfale, l'adolescente volle parlare con Don Orione: altri pure fecero lo stesso. Ad Agosto presero il via per l'Alta Italia, salendovi via Genova-Savona, sostando all'alba per la Messa ad un Santuario Mariano a mezza costa, quello della Misericordia. Poi di nuovo il treno ed alfine un nome di non buona risonanza; "Bandito di Bra". «Bandito», ma in verità - se pur rusticanissimo — apparve tanto accostevole ed accogliente: specie per via di un sorridente occhialuto Don Giulio, cioè Don Cremaschi... Vi era un turno sodo di Esercizi con quattro prediche al giorno; e c'era un prelato a predicarlo, il quale era in fama mai smentita di santo: Mons. Ambrosio Daffra, Vescovo di Ventimiglia: quello che era stato rettore di Don Orione nel Seminario di Tortona e gli aveva imposto l'abito. Parlava placido, mai dimenticando che fra gli ascoltatori c'era il dodicenne dalla tonda faccia e altri, coetanei suoi o quasi. Perciò faceva spola fra gli argomenti seri pei grandi e i fattarelli, sereni e lepidi non solo pei ragazzi; e così si finiva collo stare attenti pure alle cose che non si capivano: ma un sentimento, un sentimento profondo entrava pòco alla volta nel cuore. C'era poi un pretino a modo, che, solo a cenni d'occhi, tutto moderava: Don Carlo, Buon conoscitore di ragazzi soleva farci grazia di una predica il giorno: -vedete quel noce lassù? - ci diceva dopo averci chiamati a parte Don Sterpi - Andate a giuocare, ma piano piano e sottovoce se potete, da non disturbare la predica quaggiù; quando sentite il canto della litania, scendete per la Benedizione, ma senza far chiasso. Al termine, 15 agosto, la vestizione di alcuni chierici: quale fervore festivo! Una strana vestizione però, con vesti slavate, stinte ed a rattoppi. La scelta era lasciata ad ognuno: tanto meglio quante più toppe ci fossero. E Don Orione personalmente le controllava: lui la benediceva e lui la imponeva. Stranezze? Stranezze sì, ma da «santi» che davvero vedono attraverso gli occhi del Poverello, la mangiatoia e Gesù nudo in croce. Colui ohe qui come per «sequenze» annota, se lo rivede dinanzi Don Francesco - poco più che dodicenne allora - proprio addosso a D. Orione mentre circondato dai ragazzi si risaliva l'erta della Moffa, dopo che si era accompagnato alla Stazione il Vescovo, mi pare. - E a rne la veste? Quando me la dai la veste? - Su, dammela oggi la veste - continuava insinuandosi fra l'uno e l'altro, lui, timido, pure con spintoni. E continuava, e insisteva con pertinacia «marsicana», parlandogli nel classico e romano « tu ». Se l'avrà poi alfine, in una altra festa di Maria - e altri pure - l'abito della distinzione per Iddio. Era già buono, verginale, permalosetto alquanto per quella luna piena del volto: scatti di ira infantile, ma si placava subito e il rosso del volto riprendeva la tinta della verecondia. Naturalmente buono sempre e intimamente sano: ma da quel giorno l'interno lavorio andò smussando quanto fosse scabro per natura. Via via divenne un modello, il modello. Come era contento D. Orione, quella sera che venne a darci la buona notte a Via Mirabelle in Tortona ! Tornava dalle parti di Novara, ed era stato ad Ameno e ce ne descrìveva gli incanti. - Ad Ameno apriamo una casa per gli anziani, e vi prendiamo pure il papà tuo, caro Di Pietro. Oh, qual cuore, D. Orione! Forse aveva accelerato i tempi di una Istituzione - che diverrà poi «tipo » - per togliere la spina dal cuore di un suo ragazzo. Così il papa di Francesco morirà lì piamente, visitato spesso dal figlio, che Don Orione o Don Sterpi si portavano con sé quando vi andavano. E il vecchio si beava del figlio suo in veste di abatino: un abatino buono, tanto buono. Non che fosse diventato un santino di cera, collo torto e occhi stillanti lacrimucce... Era in lotta con le difettosità sue: mai pace con esse. E quella volta (oh, che tempi di fame quella prima guerra mondiale!) quel mattino che c'eran quelle allettanti pere su tavolone della cucina: cucina che era per di più un passaggio obbligato, e il cuoco - «Settanni » si chiamava - non c'era. Le sue mani e quelle di altri furono sul paniere, e via alla bocca. Ma eccoti D.Cremaschi, passare proprio sul più bello, benedetto lui! - Ah, golosetti, golosetti! Non dimenticherò mai il suo rossore, (né quello di «Menicuccio») che durò a lungo a lungo, e ritornava prontissimo al ricordo. E noi, biricchini, per vederlo bello di quell'«amaro morso», a ricordarglielo di tanto in tanto. Noviziato, poi studi liceali a Sanremo. Duri studi, in cui si rifacevan le basi di un ginnasio fatto in tre anni, con esami pubblici al termine; e si era fatto in tre anni «a scuola di iliaco», perché il Padre, provvido, aveva voluto metterci sul binario della regolarità: cioè il compimento del curricolo entro il tempo dell'assistenza statale agli orfani, ove avessimo non perseverato nella vita religiosa. A Sanremo noi chierichetti, si ripassava pei banchi del Regio Liceo Cassini, ove anni prima eran passati Goggi, Ferretti, Montagna. Era, quello di una scuola pubblica, il banco di prova dell'interiorità e della formazione. Ma interiormente era lui il più maturo, e quindi più forte l'impegno, più benefico l'esempio. Nelle cose scolastiche pareva arrivasse a passi più lenti, ma giuntovi, le teneva salde per sempre le posizioni conquistate. «Scuola statale» quindi varia in tutti gli aspetti: musi lunghi, colli torti, no; spigliatezza con tutti, condiscepoli e condiscepole: professori e professoresse. C'era però in lui e - frutto della gagliarda educazione che ci veniva «dallo incidere» del Padre - tutto uno stile nel drappello: come un argine e, più che un argine, una vetta coronata di un candore, attrattivo non per essi soli e lui solo. Quale aurea riserva per tutti noi quella spiegazione e commento che Don Orione un giorno ci aveva fatto di un celebre sonetto dantesco! Studi universitari a Torino: ma come? Tirando la carretta a Sanremo lui, in anni in cui il Direttore D. Quadrotta si andava struggendo per l'allora incurabile male. Rapide corse - viaggiando la notte - alla metropoli del Piemonte per le firme e qualche frequenza: ripasso sulle dispense giuntegli attraverso varie mani: esami sostando qualche volta a quella singolare «Casa ospitaliera» che i Salesiani avevano in Via Cottolengo... e poi tesi e laurea. Laurea in giusto orario, con stupore degli undici che sedevano in commissione: — Ma lei, quanti anni ha? Ed a Sanremo lo attendeva Don Quadrotta, che era agli ultimi stadi del suo male e l'altro chierico. Tutto qui il personale di un istituto, in quegli anni primi della «Piccola Opera». Ma il Signore colmava vuoti e fatiche. Studi sacerdotali: poco il tempo, ma era propizia la notte; di giorno poi lavoro e fastidi, ma era come uno starsene in croce - sereni - penetrando il « vivo ego, iam non ego ». - Prima immolarci noi - ripeteva il Padre Maestro -e poi salire il Golgota della S. Messa. Ordinazione sacerdotale a Tortona nel 1925 e poi, poco appresso, una funzione di addio, proprio nella cappella del suo abito di chierico, a Villa Moffa. «Addio», perché aveva scelto di andare missionario e aveva saputo ottenerlo. Due eventi: due aspetti di trasumana bellezza. Radioso all'altare quando offerse la «Prima Messa» per la Madre e il Padre e pei Cari... pei tanti e tanti defunti. Ma come splendeva quel Crocifisso sulla sua intatta divisa di Missionario, da quell'altare dal quale nel 1915, attraverso le labbra di Ambrogio Daffra, gli aveva tanto parlato il Signore. Però giunto a Roma per le pratiche di passaporto e poi per l'imbarco a Napoli, ecco un contrordine. Lo accolse sereno come sempre, così com'era suo costume per ogni indicazione dell'obbedienza. E dire che noi, suoi condiscepoli, gli si lanciavano birichini motteggi per tutti quegli «addii» a vuoto e per tutte le benedizioni elargite. Ed egli rideva rideva, rosso come dell'abituale verecondia. Che era avvenuto? Il parificando Istituto Tecnico per ragionieri e geometri che Don Orione aveva aperto, denominandolo a Dante in ricordo del centenario dell'Alighieri, aveva bisogno per... qualche anno della sua laurea. Quanti anni? Ne dovranno passare parecchi. E dopo il Dante, il S. Giorgio di Novi Ligure, in vari avvicendamenti di ufficio; poi il San Filippo Neri di Roma, e poi la responsabilità della Provincia romana della « Piccola Opera». Era una Provincia religiosa che dall'Umbria e le Marche arrivava a tutto il Sud e alla Sicilia con il cumulo prezioso, cresciuto tanto durante e dopo la seconda guerra mondiale, di orfanotrofi e orfanelli. Gli enti assistenziali non ancora s'eran messi in piedi; né erano desiderati. Vi era quell'Ente Divina Provvidenza, da cui l'orfano - ora Direttore Provinciale - impetrava fidente; e con lui pregavano i suoi religiosi ammalati. Quando a Roma non era in casa - era risaputo - certissimamente stava presso il letto di qualcuno di loro. Chi annota qui ricorda una comunicazione che si ebbe oltremare da Don Pensa in visita canonica alla Provincia di San Pietro e Paolo (quella del centrousud) ; era un effuso benedire e ringraziare il Signore per il buono spirito e la fiducia in Dio e per l'abbandono nelle mani della Divina Provvidenza, e pei segni della Provvidenza Divina riscontrati negli Istituti delle zone le più depresse della penisola, così colmi di poveri piccoli. Ma al quarto anno di ufficio, parve soccombere alla fatica ed al male. Fu sull'orlo della vita dopo un'operazione gravissima alla gola. Si era messo tutto nelle mani di Dio in quel 1950. Ma quella volta il buon Dio ce lo lasciò. Seguirono anni di altre responsabilità. Sereno sempre e sempre eguale a se stesso, sia nel reggere il teologico a Tortona, come i chierici di via Sette Sale alunni delle università pontificie a Roma; così alla colonia di Vicolo Massimi (la sua prima sosta dopo il terremoto), come quando cessò di essere provinciale o quando fu a via Sette Sale non più direttore; in seguito fra i mutilatini, mentre nel contempo presiedeva le scuole del S. Filippo. Oh fra i « mutilatini » (post-poliomielitici allora o comunque motulesi) quel suo sorriso buono di ogni ora, quale conforto a quelle povere creature! Soleva attingerlo dalla Madonna - la statua votiva che pur sorride... materna su quel culmine e di lì veglia su Roma - fedelissimamente visitandola ogni giorno. Così come ogni settimana volgeva passi discreti alla vicina villetta dei «Santi Ritiri» ad animare, rasserenare, aiutare un gruppo di volontarie di Don Orione. Sereno sempre, ma non un insensibile. Non era un pezzo di selcio. La scontava poi in notti insonni la delicata sensibilità e le ansie. Ma quelle notti si colmavano di preghiere, cui seguiva poi una dolcissima ansia all'altare nel momento della consacrazione, ansia che i medici non seppero spiegare. Interrogato al riguardo taceva, e sempre in silenzio sofferse (sono le più autentiche prove della predilezione di Dio!) contrarietà, incomprensioni ed anche... insinuazioni: tutto sostenendo nella linea del «non vosmetipsos defendentes fratres». Era un mite, quasi pavido talvolta. Che pena per lui riprendere! Gliene perdurava la puntura in lunghe veglie quando avesse dovuto farlo. Ma si rifugiava nella preghiera. Quante volte di notte fu sorpreso presso il Tabernacolo! Come disciplina di carattere aveva acquistato la morbidezza di un cuscino; ma quel cuscino poteva diventare diamante, soprattutto quando si trattava di problemi di carità, specie se collettiva. Chi scrive, mai dimenticherà la circostanza in cui in una adunanza che, con parola di oggi diremmo «complessata» (v'era infatti un'alta dignità prelatizia a presiederla) tra lo stupore e l'ammirazione si levò lui a rappresentare una situazione che non andava. Situazione che metteva in angustia anime avute in responsabilità. Disse misurate, equilibrate, chiare parole, sempre tinto di quel suo bel rossore, ma così coraggiose. E analogo adamantino atteggiamento tenne con un potente il quale, da Torino, reggeva le scuole del Piemonte in una linea manifestamente faziosa e anticlericale. Aveva distinto dal suo maestro e padre una linea di pietà semplice, cogliendo nel profondo di quella triplice distinzione della preghiera: orale, mentale e vitale. Gli proveniva poi da scaturigini materne (e da quei missionari Alfonsini) la devozione al Tabernacolo, al Crocefisso e alla Madonna. Don Orione gliele rese incandescenti da quando, alla Colonia Santa Maria al Vicolo Massimi, aveva tratto Gesù - per porgerglielo nella sua prima Comunione - da quel Tabernacolo che ora è nella chiesina di Via Montanara 8, Roma. Il suo amore filiale alla Madonna, aveva qualcosa qua, si di eccentrico, ma singolarmente bello. Solo a qualche vicinissimo a lui (se ne fece un giorno la scoperta con D. Mogni) era noto il suo pio costume — cercava però di non farsene aocorgere — di fare delle visitine, espressamente alla Madonna. Dopo aver adorato Gesù nel Sacramento, se ne usciva, ma di lì a poco, quasi furtivo che altri non se ne avvedesse, rientrava e, fatta la genuflessione al Santissimo, andava di filato alla immagine della Madonna a filialmente parlarle. Al fuoco di Don Orione poi capì il Papa, la Chiesa, le Anime, i poveri, l'amore ai fratelli, e se ne accese, non in forme retoriche però, ma di vita. Pei fratelli, specie se infermi, quale amore! Sia se inchiodati ad un letto, sia se indeboliti o vacillanti nell'amore a Dio e alla vocazione. Chi qui, come può, tratteggia, amerebbe avere la potenza di chi fissa sulla tela o scava nel marmo, per rappresentarlo come lo colse quella volta... in ginocchio, dinanzi ad un suo giovane confratello sacerdote (lo aveva in cura) deliro e sull'orlo..., a scongiurarlo che non dilapidasse la sua sublime vocazione e il suo sacerdozio. Una «corresponsabilità» accolse trepido, ma quale profumo d'anima vi mise, e soprattutto quanta preghiera: l'avvio cioè di un gruppo di anime - secondo luci che il Fondatore e Padre si ebbe da Dio sin dal 1912 - verso i vertici della perfezione, in una speciale consacrazione restando secolari. Raccolse elementi e chiarimenti, indicazioni ed esperienze altrui, approfondì lo studio e la meditazione dei documenti pontiflci al riguardo. Con pazienza poi (oh quanta!) guidò i lavori di una speciale commissione al riguardo e compilò attente e preziose pagine di relazione le quali, ora specialmente, appaiono una ben chiara linea. E' unanime il rimpianto in quelle volenterose le quali se ne ebbero in questi anni tanto spirituale aiuto: «davvero era un sacerdote santo Don Di Pietro! ». Malferma la salute da più che tre lustri (ma riusciva a nasconderlo pure ai più vicini) fu continuo il suo crescere in robustezza d'anima. Scendere a particolari gioverebbe soprattutto in ordine a quella che - colla illibatezza verginale - è cardine anzi roccia basilare della « Piccola Opera della Divina Provvidenza ». Certo i grandi Fondatori ricevettero folgorazioni varie da Dio-. Don Orione due soprattutto se ne ebbe in ordine allo stuolo di anime che - lungo i secoli - il Signore per mano di Maria gli avrebbe affidate: la verginità consacrata e lo spirito di povertà. Ora ci si accorge - ripensando, rinumerando, meditando - ci si accorge in quale grado Don Di Pietro se le ebbe. Di più la prima o la seconda? Oh, tutte e due, e in maniera splendente. Certo alla seconda concorse il S. Francesco (quanto ne era devoto!) del nome suo. Ma la mira per «l'essenziale» e l'ansia per l'arrivo a Dio, fu struggimento suo di ogni ora. E quella «buona notte» durante un corso di esercizi spirituali a Miradolo, in cui pacato e fermo - ma batteva su di sé, caro fratello ! - scudiscio - la indegna mediocrità nel correre verso Dio!? Non pochi lo ricordano senza un soldo per l'autobus, portarsi a piedi da un punto all'altro di Roma, quando a Via Sette Sale non era più superiore. La sua fine rapida, quasi improvvisa e disturbando il meno possibile - ma col pungente rammarico in tutti che lo conobbero - è la riprova di una vita, tutta spesa in alto onore per la Chiesa e per l'Istituto Religioso che lo ebbe figliuolo. Quelle sue offerte finali nella stanzetta del suo trapasso- (ce ne ha reso testimonianza il terzo successore di Don Orione) precedute da una professione di umiltà che costerna e con quel baciare la immagine di Don Orione quasi a «chiedere perdono di non aver fatto i tutto quanto avrebbe dovuto»... non possono riudirsi senza piangere, dentro, nell'anima: «Chiedo perdono dei cattivi esempi che ho dato, e se non ho sempre fatto quello che avrei dovuto... Offro la mia vita per il Papa, per la Congregazione, per le vocazioni... Particolarmente per quelli che sono un po' deboli nella vocazione... per il Capitolo Speciale...». E poi quel finale della dossologia del rito, a chiara voce (ed erano gli ultimi respiri) ad alta e chiara voce dette e ripetute le sante umane parole : «Per Cristo, con Cristo e in Cristo»...! Ecco, quanto sopra ci conforta e nutre di speranza: «speranza buona», che - ora che sei giunto alle rive della Vita - la continuerai incessante la tua preghiera, per noi: con quella stessa insistenza di quando, ragazzo, lungo l'erta di Villa Moffa chiedevi al padre della tua orfanezza l'abito santo: e poi, lungo tutta la vita, lo imploravi - dal Signore per Maria - l'interiore abito delle virtù. Con Don Orione che ti è venuto incontro nel suo giorno... a gran voce chiedi per noi, così malsani e debolucci e poverelli e nudi d'anima: per noi impetra, o verginale amico, vero fratello.
D. Gaetano Piccinini,
F.D.P. da “La Piccola Opera della
Divina Provvidenza” 15 gennaio 1969
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